Pesce gratinato con verdure

Vuoi aumentare le porzioni di pesce nel tuo menù settimanale ma non hai fantasia? Ecco la ricetta giusta per te: filetti di spigola gratinati con le verdure. Puoi usare pesce diverso, combinazione di verdure diverse, per un gusto ogni volta nuovo e mai noioso.

Provalo in questa versione e man mano arriva con le giuste sostituzioni alla tua preferita, vedrai che il pesce non mancherà più nella tua spesa settimanale!

Crostini ai funghi piccanti (Vegan)

Aperitivo o merenda sfiziosa? In ogni caso sono assolutamente da provare!

Come fare la Granola in Casa

In caso di intolleranze ad alimenti specifici, riuscire a fare in casa alimenti normalmente acquistati al supermercato permette di scegliere secondo il proprio gusto e le proprie esigenze gli ingredienti. E’ il caso della granola: mi piace un sacco ma non posso mangiare le mandorle, onnipresenti in ogni granola che si rispetti, per cui, piuttosto che comprarla già fatta e scansare le mandorle (e non sempre ci riesco visto che mi piacciono moltissimo!) mi piace di tanto in tanto farla in casa su misura per me, i miei gusti e le mie intolleranze.

Green Smoothies: consigli su come farli

Vi rinvio al pst sul mio blog di cucina per consigli su come preparare e conservare i vostri Green Smoothies, ossia frullati a base di frutta e verdura, un super boost di vitamine, fibre e sali minerali.

Tranci di Salmone

Che li prendiate in pescheria oppure al banco freschi del vostro supermercato, dovete provare il salmone al forno così: semplicissimo, gustosissimo, da accompagnare con insalata e una porzione di carboidrati secondo il vostro piano alimentare. La ricetta completa sul mio Blog di cucina.

Food shame

Si fa tanto parlare del non colpevolizzarci o non vergognarci delle nostre scelte in fatto alimentare.

La parola chiave qui è “scelte”, che presuppone consapevolezza e presenza a se stessi, oltre che assenza di condizionamenti esterni come l’educazione e “le buone maniere” (a questo dedicherò altro post).

Ho varie volte descritto nei miei post precedenti il mio rapporto con il cibo con il termine “dipendenza”, ed i motivi sono molteplici, uno fra tutti l’incapacità totale di resistere al cibo che mi si para davanti soprattutto in periodi di forte stress mentale ed emotivo.

Qui un elenco, non esaustivo delle idiozie che ho fatto e di cui, sì, rido ma mi vergogno anche. Le condivido un po’ per esorcizzare questo demone che mi sembra essere sempre al mio fianco, sebbene cerchi di domarlo e controllarlo, un po’ per sdrammatizzare ma soprattutto per farvi sentire meno “strani” e meno “sbagliati” se anche voi vi siete trovati a fare una o più di queste inconfessabili cavolate in preda a raptus famelici.

Ho rubato il cibo alle mie coinquiline

Scenario: delle 4 coinquiline che abitavano la mia casa da fuori sede, due tornavano a casa ogni fine settimana, una lavorava e studiava per cui era tutto il giorno fuori casa, io ero praticamente sola nei weekend. Capitava assai spesso che fagocitassi interi pacchetti di biscotti e merendine lasciati dalle due coinquiline che tornavano a casa, per poi ricomprare le stesse confezioni e rimetterle al loro posto. Dato che c’ero qualche volta ho anche comprato un pacco extra per continuare a languire. Inutile dirvi che è anche capitato che non trovassi al supermercato le stesse merendine/biscotti ed ho dovuto ammettere a testa bassa non solo di aver preso qualcosa dalle loro dispense, ma addirittura di aver fatto fuori 10+ merendine in 48 ore. Non dimenticherò mai lo sguardo misto di disapprovazione e disgusto che mi hanno rivolto. Ma la cosa peggiore è che dopo quell’episodio in cui fui beccata, non hano lasciato più nulla nel weekend, chiudendo sotto chiave tutto.

Ho mangiato resti di pizza nel cartone

direte che tutti hanno mangiato almeno una volta pizza e panzerotti freddi a colazione. Si… d’accordo, ma magari non tutti attingendo a cartoni della pizza che si sarebbero dovuti buttare, in cui magari era finito pure qualche tovagliolino o tappo di birra. Insomma, se siete schizzinosi e non curanti dello spreco di cibo globale, questa vi sembrerà una vera schifezza. Ma non è tutto.

Ho mangiato cibo che avevo buttato

Quando mi prende il raptus l’unico modo che ho per fermarmi è eliminare il cibo, buttarlo via e non mettermi nelle condizioni di procurarmene altro (quindi, non posso uscire di casa). A volte, mi è capitato di buttare mezzo pacchetto di patatine o di biscotti semplicemente accartocciando la busta spedendola nel sacchetto dell’immondizia. Beh… è capitato che lo riprendessi pure. La soluzione che ho quindi adottato è quella di spruzzare di detersivo qualsiasi mezzo pacchetto di cibo prima di buttarlo via, in modo da prevenire qualsiasi ripensamento.

Non posso non ricordare questa memorabile chicca di Miranda Hobbs da Sex and the City a tal proposito.

Ho masticato e sputato il cibo

Un grande classico, insieme allo spruzzare il cibo di detersivo questa è una delle cose che ancora mi capita di fare, solo che oggi lo faccio perché mi rendo conto che ho messo in bocca cibo per qualche meccanismo tossico autodistruttivo e non per appetito o sentirne davvero il sapore. In passato è capitato che usassi questo modo bizzarro per placare in qualche modo il raptus ma non “ingerire” calorie in eccesso. Vomitare per me non è mai stata un’opzione, il che, credo, mi ha salvato dalla bulimia. La strada che avevo scelto era quella non di svuotare lo stomaco, ma di non riempirlo, riempiendomi solo le fauci.

Considerato che anche questo si vede in Sex and the City (video sotto dal minuto 3.35), immagino vi verrà spontaneo chiedersi quanto mi abbia influenzato (negativamente?) questo show! In tutta onestà non so se entrambe queste cose mi fossero mai capitate prima di vederle in un telefilm, ma la sostanza non cambia.

Ho mangiato di nascosto

Soprattutto a casa dei miei. Appena venivo lasciata sola in cucina andavo ad aprire il frigo e i mobiletti degli snack. L’ho fatto da piccola e come in trance lo faccio anche ora anche se poi non prendo nulla da mangiare, è un riflesso incontrollato rimasto dalla mia infanzia/adolescenza. Naturalmente sono stata “beccata” diverse volte, e sapevo che gli altri conoscevano questa mia abitudine. Se qualcuno mi beccava fingevo nonchalance ma dentro mi sentivo morire. Quando sono dai miei è come se mi trovi ad interpretare ancora il ruolo di quella che sgattaiola in cucina per mangiucchiare. Forse ora che mia madre ha completamente cambiato i mobili e la loro disposizione in cucina, l’automatismo verrà spezzato. Chi lo sa?

Quella volta in cui ho provato l’autoipnosi per dimagrire (don’t try this at home!)

Da figlia degli anni ottanta sono cresciuta guardando ogni domenica Giucas Casella che ipnotizava vip in TV e intrecciava le dita dei telespettatori più psicolabili.

Giucas a parte, l’idea dell’ipnosi mi ha sempre affascinata e spaventata. Sono sempre stata una osservatrice attenta anche di me stessa, ma ho al contempo sempre avuto l’impressione che dentro di me ci fosse una sorta di muro invisibile oltre il quale non riuscivo (o non volevo?) spingermi. Mi sembra che questa sorta di “muro” sia in qualche modo attivo anche mentre sogno, dato che spesso sono consapevole di trovarmi in un sogno e sottopongo la “storia onirica” a delle prove del nove per “tranquillizzarmi” mentre la storia si svolge o per non spingermi troppo a fondo nella storia (e nelle emozioni).

Da un lato mi piacerebbe sottopormi ad una seduta di ipnosi, mi piacerebbe scoprire se ci sono dei ricordi sopiti, prendere una “macchina del tempo” e viaggiare indietro nei ricordi che alla mente vigile appaiono fumosi e che magari sono più vividi ad un livello inconscio più profondo. Dall’altro l’idea mi spaventa un poco, nel timore di operare su interruttori che poi non potrei più portare sulla posizione “dormiente”. Può darsi che abbia una visione distorta e oltremodo ignorante di cosa sia l’ipnosi. Anzi, credo di aver letto da qualche parte che al “risveglio” non si ricordi affatto nulla e che il terapeuta non è tenuto a riferire quanto emerso, il che invece di tranquillizzarmi un po’ mi infastidisce!!! Fatto sta che il tema “ipnosi” mi ha sempre incuriosita, con un misto di divertito scetticismo (verso i numeri televisivi) e interesse scientifico.

Con questo “background”, all’ennesima volta che il mio Audible mi proponeva un libro di autoipnosi per dimagrire, ho deciso di provare l’ascolto del primo capitolo.

E’ stato come scendere in una spelonca che portava ad una laguna e poi fare il bagno in quella laguna. Non è stato spiacevole, ma nemmeno rilassante. Galleggiavo nelle acque di questa laguna con di timore e curiosità. Come quando galleggiamo nel mare ma teniamo un occhio semisocchiuso per controllare di non andare alla deriva o stringiamo tra le dita la cordicella della boa perimetrale. Abbastanza rilassati da galleggiare, ma sufficientemente tesi e vigili per non andare troppo in là.

Fin qui tutto ok. Il peggio è “emerso” nei giorni a seguire.

Era come se risalendo dalla spelonca verso il risveglio, avessi lasciato aperto il passaggio a qualcosa che era rimasto celato alla vista “cosciente”. Nei giorni successivi ho avuto delle esplosioni di rabbia (più forti del mio solito), come fossi un vulcano in continua eruzione. Ero tormentata da un malessere a cui non sapevo dare nè un nome nè una causa precisa. Avevo da poco ripreso ad andare dalla nutrizionista. Mio marito vedendo dietro la rabbia la mia sofferenza mi “consigliò” di lasciar perdere la dieta se mi faceva stare così di cattivo umore. Non gli dissi che avevo provato l’autoipnosi. Mi vergognavo e comunque non sapevo nemmeno se fosse stata quella la causa delle violente esplosioni di rabbia che ebbi in quei giorni. So solo che cercando di capire quale potesse essere stata la causa scatenante, mi si piazzava davanti agli occhi la visione di quella “laguna”. Come quando dopo aver mangiato l’impossibile visualizziamo ciò che ci ha fatto “davvero male” dalla nausea che ci assale al pensiero di un certo cibo nello specifico e non di tutto il resto. Suggestione? oppure mi ero spinta oltre il muro e portato via con me da laggiù degli strascichi che non riuscivo nemmeno ad identificare?

In ogni caso, di sicuro non era lo “stare a dieta” a farmi stare male. Cercando di avere maggiore controllo su quello che mangiavo, non potevo usare il cibo per tenere a bada i demoni, come facevo di solito. Non era la dieta a generare il malessere. Il malessere c’era anche prima, solo che non abbaiava rabbioso perchè intento a mangiare il cibo che gli gettavo addosso (un po’ come il segreto di Hulk: lui non si trasforma “quando” è arrabbiato. Lui è sempre arrabbiato, si trasforma quando decide di non controllare la rabbia e lasciarle libero sfogo). Il mio autocontrollo era per il 90% incanalato verso la lotta al cibo fuori orario, e quello che ne residuava era troppo poco per fronteggiare una ondata (uno tzunami) di rabbia. E, a quanto pare, dalla spelonca, insieme a me, erano risaliti altri demoni che non sapevo tenere a bada.

Quella fu la prima e l’ultima volta (fino ad oggi) che provai la autoipnosi. Non credo che riproverò da sola. Se e quando deciderò di ridiscendere in quella spelonca, vorrò farlo con la guida di un professionista serio. Però la sofferenza che provai in quei giorni mi convinse finalmente a fare una cosa che rimandavo da tempo: consultare una psicoterapeuta.

Avviai così un percorso di terapia cognitivo-comportamentale, che è molto efficace per gli stati depressivi, di ansia o per la gestione della rabbia e del senso di colpa (che, fatta eccezione per l’ansia, mi attanagliavano). Invece per nulla efficace è stato come supporto alla mia dieta (ed ho scoperto poi recentemente, che in effetti i tanti benefici di questo tipo di terapia non sortiscono effetti sul piano della dipendenza da cibo, che attiene a diversi meccanismi della psiche e del cervello).

Al momento, anche a causa del distanziamento sociale, ma non solo, mi trovo in una fase di “autogestione” sulla scorta di tutta la teoria che conosco molto bene, ma non escludo che avrò bisogno di un supporto professionale sinergico, non solo sul piano nutrizionale ma anche (e direi, soprattutto) psicologico.

E voi? nel vostro percorso per la perdita di molti chili avete avuto anche un sostegno psicologico? Lo avreste voluto? Pensate possa fare la differenza?

Avete mai provato l’autoipnosi? Ha avuto un qualche effetto o vi ha fatto semplicemente addormentare? Raccontatemelo nei commenti!

Una dipendenza sotto gli occhi ed il giudizio di tutti.

La chiamano “fame emotiva”. Io la chiamo dipendenza da cibo.

Ho sempre associato il mio rapporto con il cibo al rapporto che i fumatori hanno con la sigaretta, ma le differenze sono abissali e dolorose.

Primo fra tutti non puoi “smettere di mangiare” tout court. Puoi decidere da un giorno all’altro di non toccare più una sigaretta, di tenerti lontano da determinati trigger. Non puoi decidere di smetterla con il cibo. Serve per sopravvivere, ti ritrovi in ogni caso a farlo e rifarlo ogni giorno, con il risultato che ogni pasto della giornata è un baratro che si apre di fronte a te con il rischio di sporgerti troppo e precipitare.

Secondo, gli effetti della dipendenza da cibo sono visibili a tutti: la ciccia. Prima che gli effetti della sigaretta escano vistosamente allo scoperto ci vogliono più anni e un numero considerevole di pacchetti quotidiani. I polmoni ricolmi di catrame restano all’interno, visibili solo dopo l’autopsia. Le ciccette sballonzolanti sono all’esterno, visibili ai più.

La sigaretta è una dipendenza “socialmente accettata”. Infastidisce i non fumatori, ma nemmeno tutti, i parenti non fumatori magari esortano i fumatori a smettere “per il loro bene”, ma tutto sommato non suscita lo sdegno ed il rimprovero sociale, le battute acide volte esclusivamente a ferire; non suscita un giudizio negativo sulla capacità di autocontrollo del fumatore, nonostante sia visivamente affetto da una dipendenza. Essere grassi no.

C’è un alone di pregiudizio e condanna sociale verso la gente grassa. Non la si considera al 100% degna di fiducia. Agli occhi dei più, una persona grassa non è in grado di controllare la quantità di cibo che mangia, pertanto non sarà in grado di controllare o gestire un lavoro di responsabilità.
Ma come? Non sa che determinati cibi o comportamenti fanno ingrassare? Allora è un ignorante totale.
Non capisce che deve mangiare di meno/muoversi di più? Sarà stupido (nonostante la laurea, magari. Come l’avrà presa?).
Sotto questo punto di vista ben venga il movimento bodypositive.

Gli stessi pregiudizi non affliggono i fumatori, eppure i rischi per la salute sono addirittura maggiori e non credo che nessuno fumi perché convinto di fare del bene al proprio corpo. Inutile dire che il pregiudizio si fa ancora più feroce verso le donne grasse.

Un non fumatore non si sognerebbe mai di dare ad un fumatore consigli su come smettere. Nè è verosimile che si aspetti che il fumatore smetta solo perché il capitan ovvio di turno gli dice che la sigaretta può provocare il cancro.

Per le persone grasse questa dispensa dal giudizio e dal consiglio non richiesto, non si applica.
I capitan ovvio affiorano a destra e a manca, snocciolando ovvietà come il Tg2 che con l’arrivo dei primi caldi ci invita a bere di più e a non stare al sole tra le 12 e le 14. E grazie al ca**o!!!

Poi ci sono i falsi pietosi. Loro “sanno” (perché lo hanno letto su Vattelapesca Oggi) che queste persone non mangiano per fame vera, ma per colmare un non meglio definito “vuoto” che hanno dentro. Fame emotiva la chiamano, senza sapere cosa sia davvero.

E poi c’è la marea di stronzi che si fa una risatina se una taglia +54 cerca di fare un pasto sano o di fare movimento. E ca**o. “Eh! proprio oggi che è il mio compleanno devi fare la dieta?” Da qualche parte bisogna pure iniziare. Non fai e ti criticano, fai e ti deridono… e che cazz!

La dipendenza da cibo non è “golosità”. Né è una banale “fame da stress”.

La dipendenza da cibo ha in sé i tratti della cattiva abitudine difficile da scardinare, della sofferenza psicologica a cui si cerca di dare un po’ di sollievo e della sfrenatezza incontrollata fine a se stessa.

Se bastasse conoscere le “regole” della sana alimentazione, non ci sarebbero obesi al mondo, se non quelli che soffrono di particolari patologie metaboliche.

Se bastassero i capitan ovvio a rinsavirci dal grasso, non esisterebbe tutta una larga fetta di business che vende soluzioni miracolose e senza sforzi.

Se bastasse un poco di buona volontà per resistere alla propria dipendenza, quale che sia, saremmo tutti dei santoni, stoici e integerrimi.

La strada per liberarsi da una dipendenza è ripida e piena di ostacoli. Pensate ai poveretti che devono disintossicarsi da alcool o altre droghe. La “cura” è l’astensione totale. Per il cibo questa cura non si può applicare. Il meglio che si può sperare di fare (e sperare anche in un approccio equilibrato) è il “chiodo scaccia chiodo”, il sostituire una dipendenza/cattiva abitudine con una abitudine se non sana, almeno “non dannosa”.

Il mangiare troppo è spesso causato da una situazione di dipendenza, e con le cautele e la forza del caso va affrontata.

Ma di questo parleremo più avanti.

Cap. 3: approccio sbagliato al bodypositive, ovvero come l’accettare di essere grassa mi ha fatto prendere ancora più peso.

Eccoci all’ultimo capitolo del come ho fatto ad aumentare ancora di peso oltre i 90 chili.

C’è da dire che nel mezzo c’è stata la seconda gravidanza e un atteggiamento del tipo “ma si, poi li perdo tutti dopo…”.

Superati i 90 chili mi ero nuovamente rivolta ad una nutrizionista per tornare in carreggiata, facevo almeno 10.000 passi al giorno e avevo anche ricreato il gruppo WonderWomen. Poi la scoperta della gravidanza mi ha come messo in pausa su innumerevoli fronti. E poi, subito dopo il parto c’è stato il lockdown…

Nel frattempo con il tempo si era fatta strada una sorta di rassegnazione al grasso sotto le insegne del pensiero #bodypositive. In realtà più che rassegnazione, che implica una piena accettazione dello stato delle cose, il mio era uno stato di paralisi all’interno di una situazione che avevo gli strumenti per cambiare ma per cui non mi rimboccavo le maniche.

Non sono una persona introversa, ma faccio molta fatica a nutrire la mia autostima e fiducia in me stessa. Negli anni ero riuscita a creare una buona armatura di autostima, basata più sulla osservazione razionale delle mie caratteristiche personali e professionali che su un convincimento vero e proprio di quanto valessi come persona. Isolarmi dagli altri a causa del lavorare da casa ha eroso pezzo dopo pezzo la mia armatura.

A questa armatura si sono sostituiti i chili in più, che mi hanno fatto il dono di un grande superpotere: l’invisibilità. Mi ero accorta ad esempio di essere invisibile in spiaggia nel mio corpo da prozia burrosa. Nessuno badava a me. Nessuno notava la buccia d’arancia, o la panza. Non mi vedevano. Non esistevo. Fantasticissimo per una che davanti allo specchio ha visto sempre e solo i propri difetti, sia a 58 chili che a 108! Se entravo in un negozio passavo inosservata, niente commesse ad infastidirmi, a cercare di orientarmi verso quel modello o quella taglia. Magnifico! Per strada non dovevo più preoccuparmi di attirare l’attenzione di uomini malintenzionati. Un sollievo non da poco.

In realtà avevo creato una sorta di bolla. Solo apparentemente ero un felice e appagato “membro” della gang “plus size”. Diciamo che il mio nuovo superpotere aveva addolcito la pillola e fatto archiviare la nuova situazione come “non problematica” ma anzi, per certi versi positiva e preferibile.

Una bugia. Anzi. Una cazzata.

Sin da giovanissima per me erano chiare le caratteristiche somatiche del mio “bodytipe”, i miei punti di forza e i punti critici. Avevo sin da subito notato che la forma del mio corpo non cambiava se dimagrivo o ingrassavo. Ero consapevole e tutto sommato contenta del mio corpo tutto sommato proporzionato, migliorabile, certo, ma con i giusti accorgimenti un buon compagno di vita. Ero già da tempo antesignana della bodypositive attitude.

Man mano che i chili in più sono diventati oggettivamente troppi, mi sono trincerata dietro l’insegna del bodypositive, del non essere obbligata a conformarmi a questo o quello standard di bellezza, o che addirittura un gran sederone era pure diventato di moda.

Mi sono ribellata all’idea di “dover essere” in una data maniera per compiacere gli altri, inclusa mia madre che, a suo modo, cercava di farmi rendere conto che avevo oltrepassato il limite. Mi faceva arrabbiare il fatto che il giudizio sulla mia persona “tout court” dovesse essere condizionato dal mio peso (e questo è materiale per altro post). Il mio valore come persone (come il valore di ogni altra persona) non cambia al variare del mio peso. Questa è una sacrosanta verità ed e ciò che voglio insegnare ai miei figli. Ma questa sacrosanta verità non può e non deve essere l’alibi per non guardare in faccia il mio problema. Ed il mio problema non sono i chili in più. I chili in più sono l’effetto del mio problema.

La verità è che la corrente bodypositive ha il merito di accendere un faro sui tanti preconcetti e stereotipi che associamo all’essere “plus size” o in generale “diversi” dallo standard di bellezza in voga in un determinato periodo storico. La percezione “standardizzata” di cosa sia universalmente bello (e quindi buono/bravo) è la punta dell’iceberg del movimento bodypositive. Sotto l’iceberg ci sono abissi di pregiudizi che includono ambiti che con il fisico non hanno nulla a che fare e che condizionano il modo in cui percepiamo noi stessi e gli altri.

L’altra verità è che per me la ciccia era un letto di bambagia in cui languire e fare finta che mi stavo bene così.

La verità che stavo tacendo a me stessa è che imbottire il mio corpo con 30 chili in più non era espressione di amor proprio e nemmeno amore per il cibo.

L’avere scoperto che essere grassa mi rendeva invisibile non era accettazione del mio corpo, era buon viso a cattivo gioco.

Fagocitare tutto il cibo che mi capitava a tiro non era espressione del mio godermi la tavola, era uno stato di incontrollata dipendenza, arginata solo dal timore di avere la nausea. Erano questi i miei problemi che non stavo affrontando.

Essere genuinamente grati e contenti per quello che si è (essere bodypositive) non significa escludere il voler/poter stare meglio. Dove “stare meglio” non è mai stato per me “essere magri”, ma avere un corpo sano e forte, con muscoli agili e definiti.

Bodypositive significa non avere pregiudizi di alcun tipo veicolati dall’aspetto fisico, né verso gli altri, né verso noi stessi. Significa non offendere qualcuno o non ritenerlo degno/indegno per come è fisicamente, magro o grasso, alto o basso, rifatto o naturale.

Bodypositive non significa fare finta di non vedere che il grasso che ci portiamo addosso è l’effetto tangibile e visibile di quanto ci siamo trascurati e non amati abbastanza.

Bodypositive significa conoscere il proprio corpo e accettarne le caratteristiche.

Non significa fregarsene delle conseguenze del cibo in eccesso tanto sempre una pera/mela resto. Non è una buona ragione per languire nelle proprie dipendenze.
Il corpo è in parte eredità genetica, in parte il risultato di come ci trattiamo.
Se siamo consapevoli di non trattarci come dovremmo, non è sbandierando le insegne del bodypositive che potremmo rendere giustizia al corpo che ci è capitato in sorte, né sentirci o vederci meglio. Anzi.

Vi prego di non fraintendermi: non sono contro il pensiero bodypositive e quindi a favore di uno standard uniforme di bellezza fondato sulla magrezza. Dico che, per me, l’approccio bodypositive è stato (e nemmeno in maniera tanto inconsapevole) un modo facile per sfuggire e non affrontare il mio problema di dipendenza dal cibo.

Quello su cui vorrei invitarvi a riflettere se siete in una condizione simile alla mia, è chiedervi se accettando i chili in più state amandovi realmente per quello che siete, oppure scegliendo una via comoda per continuare a languire.

Io ad un certo punto ho smesso di amarmi (se mai l’ho fatto veramente) ed ho iniziato a languire. Non l’ho nemmeno issata la bandiera del bodypositive, ma mi sono riparata all’ombra di una bandiera che altri avevano issato per più nobili fini.

Quando entro da H&M o OVS, dico a mio marito che vado al reparto “grassone”. E lo dico in senso dispregiativo per me stessa, con finta ironia ed il terrore che questa rimanga la mia condizione a vita. Mi vergogno, ma è così.

Non giudico male chi porta taglie oversize, sia chiaro. Non giudico male mai nessuno, per nessun motivo. Eccetto me.

Per un po’ ho fatto finta di accettarmi nella mia nuova forma, nel mio “inedito” peso. Quel finto accettarmi ha comportato prendere altri chili non certo fermarmi dove ero al momento dell’accettazione. Vestivo i panni di una finta paladina della lotta agli “stereotipi di peso” portanto con menefreghismo il carico dei chili in più. Ma quel ribellarmi solitario e silenzioso allo standard di bellezza imposto dalla società a chi giovava? E quando mai io mi sono piegata alle imposizioni della società? Che senso aveva questa finta nuova veste, mentre dentro di me pian piano soffocavo la spinta a trattarmi meglio? Non stavo mica raccontandomi una bufala per continuare a languire, a scapito della salute? La risposta è si.

Come ho fatto a prendere 30 chili. Cap. 2: da 80 a 90 chili. (Perché e come lavorare da casa mi ha fatto aumentare di peso).

Notare bene che ho scritto “lavorare da casa” e non “smartworking”. Smartworking contiene la parola “smart”, intelligente. Ed è tale se si lavora da casa in maniera intelligente, non solo per l’azienda (in termini di produttività) ma anche nel trovare equilibrio tra lavoro e vita personale. Se non fatto in maniera intelligente, lo smartworking può portare parecchi svantaggi, il 90% dei quali a carico del lavoratore.

Sono una fan dello smartworking, ma devo dire che non mi sono comportata in maniera molto smart nel mio lavorare da casa in questi anni. Non apportare dei correttivi al mio “isolamento lavorativo” ha comportato per me diversi problemi, tra cui l’aumento di peso. Lento, graduale e costante.

Non mi voglio dilungare sullo smartworking in sé, ma su come lo stare a casa e le ridotte occasioni di vedere gente mi hanno portato gradualmente a prendere 20 chili (aggiungendo quei 20 chili ai dieci che già avevo preso di mio!). Che siate casalinghe, smartworkers oppure disoccupati, questi sono dei campanelli di allarme da tenere in considerazione.

Piccola nota: lavoro da casa dal 2015! Non ho preso 20 chili nell’anno della pandemia!!! Nel mezzo un’altra gravidanza mi ha dato una ulteriore “mazzata”.

1) Camminare mooooolto meno

Quando dovevo recarmi in ufficio tutti i giorni, viaggiavo con i mezzi. Il che significava fare circa 40 minuti di camminata totale all’andata e altrettanti al ritorno, in quanto la stazione dei treni distava circa 15 min. sia da casa mia che dall’ufficio. La cosa non mi è mai pesata, anzi, mi permetteva un minimo di movimento quotidiano nell’ambito della mia vita sedentaria fondamentalmente a costo zero. In pausa pranzo inoltre incastravo pilates, nuoto e ulteriori passeggiate.
Lavorando da casa ho perso questa occasione “obbligata” di movimento minimo quotidiano. Mi toccava programmare questo tempo o peggio incastrarlo tra impegni che si accavallavano, sia familiari che di lavoro, senza contare il fatto che non dovevo dare al “capo” l’impressione che non stessi lavorando e stessi rubando lo stipendio.

Naturalmente nel mio caso, al minore movimento non ha fatto da contrappeso un minore introito calorico, anzi.

2) Dover pagare il doppio per fare movimento

Preciso che ho iniziato a lavorare da casa dopo che è nata mia figlia. Inoltre non vivevo vicino ai miei genitori nè ai miei suoceri. Fino a che la piccola non ha iniziato ad andare all’asilo, uscire per fare una camminata (senza di lei) o andare in palestra significava dover pagare qualcuno che badasse a lei (oltre che la palestra). Per un po’ l’ho fatto. Anzi: l’ho fatto appena e per tutto il tempo che ho potuto, fino a che la mia piccolina non ha iniziato a frequentare l’asilo. Ad esempio, la signora (poi mia amica) che mi aiutava con le faccende di casa, mi teneva la piccola nell’ora in cui andavo in palestra e poi, quando tornavo, iniziava con le pulizie… ma questo significava pagarla di più: farla venire due volte e per un’ora in più! Diciamo che ho sempre cercato il modo di fare almeno un minimo di attività fisica, ma non sempre ho avuto la costanza e la perseveranza per continuare e, comunque, come detto sopra, non ho diminuito l’introito calorico a fronte della diminuzione del moto. E poi, tra le tante cose da incastrare, la priorità assoluta andava sempre a lavoro/famiglia.

3) Sentirmi in colpa a pagare la babysitter per concedere tempo a me stessa

Quando mia figlia ha iniziato a frequentare l’asilo ho dovuto concentrare e condensare tutto il lavoro di una giornata nelle ore in cui lei era all’asilo (inizialmente solo fino alle 14) e possibilmente anche la palestra/il movimento. Se avevo bisogno di maggiore tempo per fare tutto, pagavo la babysitter un paio di ore al pomeriggio. Ciò in cui sbagliavo era ritenere “più giusto” pagare una babysitter per poter lavorare (e far guadagnare gli altri, in sostanza!), che non per dedicarmi a me stessa.
Mi sentivo in colpa, mi sembrava di fare qualcosa di superfluo e non meritevole sia del denaro che davo ad altri, sia del tempo che sottraevo a mia figlia. Errore madornale. Inutile ripetermi che “non puoi versare nulla da una coppa vuota” e che per potermi occupare al meglio della mia famiglia dovevo essere io “a posto”. Per il movimento (e l’alimentazione) non funzionava. Aggiungo inoltre che avevo anche iniziato a fare meditazione, e l’equilibrio e i benifici che traevo dalla meditazione mi sembravano un modo “sufficiente” di badare a me stessa.

4) Ridotte occasioni per “vestirsi”

I vestiti lo notano prima se stiamo ingrassando rispetto allo specchio o alla bilancia. Ma, le occasioni per uscire per me erano ridotte all’osso. non avevo necessità di cambiarmi ogni giorno per uscire di casa. I vestiti che indossavo per accompagnare la piccola all’asilo, una volta tornata a casa li toglievo e riponevo nell’armadio praticamente puliti e pronti per la mattina successiva. Anzi, dopo un po’ ho iniziato ad andare a prenderla in tuta e scarpe da ginnastica, “simulando” uno stile di vita più attivo di quello che fosse in realtà. Per quelle rare volte in cui dovevo uscire o andare in ufficio, tenevo sempre pulito uno massimo due outfit completi. Prima di capire che iniziavano ad andarmi parecchio stretti ce ne è voluto!
Sempre sul fronte vestiti, avevo scoperto che OVS e H&M avevano larghi reparti dedicati alle “oversize”, per cui avevo anche risolto il problema di “dove diavolo andare a trovare vestiti che mi calzano senza andare nei negozi per nonnine”. Anche qui, il fatto di non avere un chiaro riferimento sulle taglie ha peggiorato la mia percezione del mio reale “volume”.

5) Cibo sempre a portata di mano e nessuno che potesse vedermi

La ciliegina sulla torta. Non se ne scappa. Se uno ingrassa è perché mangia più di quello che consuma. Tutte le cause sopra elencate magari sarebbero state il motivo della perdita di tono muscolare o di un leggero aumento di peso se avessi avuto maggiore controllo sul cibo. Il problema principale per me è sempre stata una tendenza ad abusare del cibo, e uso la parola abusare come se mi stessi riferendo a sostanze stupefacenti.
“Fame emotiva” non rende, secondo me, bene l’idea del mio rapporto con il cibo. Da sempre, anche quando non avevo grossi problemi di peso, ho sempre assimilato il mio rapporto con il cibo a quello che i fumatori hanno con la sigaretta.

Come i fumatori passano periodi in cui fumano di meno o di più, periodi in cui si mettono di impegno e smettono per poi riprendere, il mio rapporto con il cibo è stato ed è questo. Credo che la mia unica fortuna sia stata quella di avere da sempre avuto paura di vomitare. Credo che questa mia fobia mi abbia “salvata” dal cadere nel tunnel della bulimia. forse si, forse no. In ogni caso, anche l’avere la nausea è qualcosa che detesto, per cui non ho mai avuto “l’abitudine” di mangiare fino a stare male. Quando è capitato è stato per me terribile, per cui sono sempre stata attenta a non farlo capitare, a godermi solo il buono del cibo senza doverlo odiare per il malessere che ne derivava (a parte l’aumento di peso, ma quello non lo vedi giorno per giorno). Per cui la mia condizione è quella del mangiucchiare “poco e sempre”, di continuo. E se mentre sei in ufficio, magari ti contieni perchè ci sono altri occhi oltre ai tuoi a tenere il conto di quello che mangi, a casa, da sola, con nessuno, inclusa me, a tenere il conto delle calorie, la situazione può tranquillamente precipitare. Ed è precipitata.

Alla mia dipendenza da cibo dedicherò altri post. Intanto vi do appuntamento alla prossima “puntata”, ossia come uno sbagliato approccio alla filosofia “bodypositive” mi ha portato oltre i 90chili.

E voi? Lo stare a casa più di un anno (per chi non si è recato in ufficio durante la pandemia) ha avuto effetti sul peso? Cosa ha inciso maggiormente?