Eccoci all’ultimo capitolo del come ho fatto ad aumentare ancora di peso oltre i 90 chili.
C’è da dire che nel mezzo c’è stata la seconda gravidanza e un atteggiamento del tipo “ma si, poi li perdo tutti dopo…”.
Superati i 90 chili mi ero nuovamente rivolta ad una nutrizionista per tornare in carreggiata, facevo almeno 10.000 passi al giorno e avevo anche ricreato il gruppo WonderWomen. Poi la scoperta della gravidanza mi ha come messo in pausa su innumerevoli fronti. E poi, subito dopo il parto c’è stato il lockdown…
Nel frattempo con il tempo si era fatta strada una sorta di rassegnazione al grasso sotto le insegne del pensiero #bodypositive. In realtà più che rassegnazione, che implica una piena accettazione dello stato delle cose, il mio era uno stato di paralisi all’interno di una situazione che avevo gli strumenti per cambiare ma per cui non mi rimboccavo le maniche.
Non sono una persona introversa, ma faccio molta fatica a nutrire la mia autostima e fiducia in me stessa. Negli anni ero riuscita a creare una buona armatura di autostima, basata più sulla osservazione razionale delle mie caratteristiche personali e professionali che su un convincimento vero e proprio di quanto valessi come persona. Isolarmi dagli altri a causa del lavorare da casa ha eroso pezzo dopo pezzo la mia armatura.
A questa armatura si sono sostituiti i chili in più, che mi hanno fatto il dono di un grande superpotere: l’invisibilità. Mi ero accorta ad esempio di essere invisibile in spiaggia nel mio corpo da prozia burrosa. Nessuno badava a me. Nessuno notava la buccia d’arancia, o la panza. Non mi vedevano. Non esistevo. Fantasticissimo per una che davanti allo specchio ha visto sempre e solo i propri difetti, sia a 58 chili che a 108! Se entravo in un negozio passavo inosservata, niente commesse ad infastidirmi, a cercare di orientarmi verso quel modello o quella taglia. Magnifico! Per strada non dovevo più preoccuparmi di attirare l’attenzione di uomini malintenzionati. Un sollievo non da poco.
In realtà avevo creato una sorta di bolla. Solo apparentemente ero un felice e appagato “membro” della gang “plus size”. Diciamo che il mio nuovo superpotere aveva addolcito la pillola e fatto archiviare la nuova situazione come “non problematica” ma anzi, per certi versi positiva e preferibile.
Una bugia. Anzi. Una cazzata.
Sin da giovanissima per me erano chiare le caratteristiche somatiche del mio “bodytipe”, i miei punti di forza e i punti critici. Avevo sin da subito notato che la forma del mio corpo non cambiava se dimagrivo o ingrassavo. Ero consapevole e tutto sommato contenta del mio corpo tutto sommato proporzionato, migliorabile, certo, ma con i giusti accorgimenti un buon compagno di vita. Ero già da tempo antesignana della bodypositive attitude.
Man mano che i chili in più sono diventati oggettivamente troppi, mi sono trincerata dietro l’insegna del bodypositive, del non essere obbligata a conformarmi a questo o quello standard di bellezza, o che addirittura un gran sederone era pure diventato di moda.
Mi sono ribellata all’idea di “dover essere” in una data maniera per compiacere gli altri, inclusa mia madre che, a suo modo, cercava di farmi rendere conto che avevo oltrepassato il limite. Mi faceva arrabbiare il fatto che il giudizio sulla mia persona “tout court” dovesse essere condizionato dal mio peso (e questo è materiale per altro post). Il mio valore come persone (come il valore di ogni altra persona) non cambia al variare del mio peso. Questa è una sacrosanta verità ed e ciò che voglio insegnare ai miei figli. Ma questa sacrosanta verità non può e non deve essere l’alibi per non guardare in faccia il mio problema. Ed il mio problema non sono i chili in più. I chili in più sono l’effetto del mio problema.
La verità è che la corrente bodypositive ha il merito di accendere un faro sui tanti preconcetti e stereotipi che associamo all’essere “plus size” o in generale “diversi” dallo standard di bellezza in voga in un determinato periodo storico. La percezione “standardizzata” di cosa sia universalmente bello (e quindi buono/bravo) è la punta dell’iceberg del movimento bodypositive. Sotto l’iceberg ci sono abissi di pregiudizi che includono ambiti che con il fisico non hanno nulla a che fare e che condizionano il modo in cui percepiamo noi stessi e gli altri.
L’altra verità è che per me la ciccia era un letto di bambagia in cui languire e fare finta che mi stavo bene così.
La verità che stavo tacendo a me stessa è che imbottire il mio corpo con 30 chili in più non era espressione di amor proprio e nemmeno amore per il cibo.
L’avere scoperto che essere grassa mi rendeva invisibile non era accettazione del mio corpo, era buon viso a cattivo gioco.
Fagocitare tutto il cibo che mi capitava a tiro non era espressione del mio godermi la tavola, era uno stato di incontrollata dipendenza, arginata solo dal timore di avere la nausea. Erano questi i miei problemi che non stavo affrontando.
Essere genuinamente grati e contenti per quello che si è (essere bodypositive) non significa escludere il voler/poter stare meglio. Dove “stare meglio” non è mai stato per me “essere magri”, ma avere un corpo sano e forte, con muscoli agili e definiti.
Bodypositive significa non avere pregiudizi di alcun tipo veicolati dall’aspetto fisico, né verso gli altri, né verso noi stessi. Significa non offendere qualcuno o non ritenerlo degno/indegno per come è fisicamente, magro o grasso, alto o basso, rifatto o naturale.
Bodypositive non significa fare finta di non vedere che il grasso che ci portiamo addosso è l’effetto tangibile e visibile di quanto ci siamo trascurati e non amati abbastanza.
Bodypositive significa conoscere il proprio corpo e accettarne le caratteristiche.
Non significa fregarsene delle conseguenze del cibo in eccesso tanto sempre una pera/mela resto. Non è una buona ragione per languire nelle proprie dipendenze.
Il corpo è in parte eredità genetica, in parte il risultato di come ci trattiamo.
Se siamo consapevoli di non trattarci come dovremmo, non è sbandierando le insegne del bodypositive che potremmo rendere giustizia al corpo che ci è capitato in sorte, né sentirci o vederci meglio. Anzi.
Vi prego di non fraintendermi: non sono contro il pensiero bodypositive e quindi a favore di uno standard uniforme di bellezza fondato sulla magrezza. Dico che, per me, l’approccio bodypositive è stato (e nemmeno in maniera tanto inconsapevole) un modo facile per sfuggire e non affrontare il mio problema di dipendenza dal cibo.
Quello su cui vorrei invitarvi a riflettere se siete in una condizione simile alla mia, è chiedervi se accettando i chili in più state amandovi realmente per quello che siete, oppure scegliendo una via comoda per continuare a languire.
Io ad un certo punto ho smesso di amarmi (se mai l’ho fatto veramente) ed ho iniziato a languire. Non l’ho nemmeno issata la bandiera del bodypositive, ma mi sono riparata all’ombra di una bandiera che altri avevano issato per più nobili fini.
Quando entro da H&M o OVS, dico a mio marito che vado al reparto “grassone”. E lo dico in senso dispregiativo per me stessa, con finta ironia ed il terrore che questa rimanga la mia condizione a vita. Mi vergogno, ma è così.
Non giudico male chi porta taglie oversize, sia chiaro. Non giudico male mai nessuno, per nessun motivo. Eccetto me.
Per un po’ ho fatto finta di accettarmi nella mia nuova forma, nel mio “inedito” peso. Quel finto accettarmi ha comportato prendere altri chili non certo fermarmi dove ero al momento dell’accettazione. Vestivo i panni di una finta paladina della lotta agli “stereotipi di peso” portanto con menefreghismo il carico dei chili in più. Ma quel ribellarmi solitario e silenzioso allo standard di bellezza imposto dalla società a chi giovava? E quando mai io mi sono piegata alle imposizioni della società? Che senso aveva questa finta nuova veste, mentre dentro di me pian piano soffocavo la spinta a trattarmi meglio? Non stavo mica raccontandomi una bufala per continuare a languire, a scapito della salute? La risposta è si.
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